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Esiste un fenomeno micologico che ha destato la
curiosità di naturalisti e scienziati sin dai
tempi più antichi, ma che anche oggi crea
interesse, stupore, emozione, pur avendo ormai
il rigore scientifico soppiantato l’alone di
fiaba e di leggenda che lo circondava. Ricordo le lacrime agli occhi del rude Cav. Mauro Angarano, mitico e compianto primo segretario dell’Associazione Micologica Bresadola, quando nella foresta di Vallombrosa quello strano “Poliporo” apparentemente cresciuto nel terreno portò all’estrazione di una vera “pietra fungaia”. Finalmente! Dopo averne letto “le gesta” sui testi antichi, la si poteva toccare, annusare, accarezzare. |
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Esemplare di
Polyporus
tuberaster su “pietra fungaia” estratta dal
terreno della foresta di Vallombrosa, nel corso
del Comitato Scientifico Nazionale “primaverile”
AMB (giugno 1980). |
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La
realtà scientifica |
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Ma sveliamo subito il suo segreto, prima di
addentrarci nella leggenda.
La “pietra fungaia”, nome nato nell’antica Roma
(“Lapis fungifera”), è costituita da una massa
eterogenea, formata dal micelio di un
particolare poliporo, il Polyporus
tuberaster e da detriti vegetali, sassi
e terriccio, conglobati in modo tale da assumere
l’aspetto di una grossa pietra. Tecnicamente è
uno “sclerozio”, cioè un particolare tipo di
micelio che può essiccare conservando la propria
vitalità, o più esattamente, per i tanti detriti
conglobati, una “massa scleroziale”. Questa è di
color scuro e forma irregolare, con dimensioni
normalmente di 20-30 cm, ma anche fino a 40-50
centimetri di diametro e peso fino a oltre 10
kg; si trova interrata nei boschi, con
preferenza per faggete e querceti, ove
fruttifica da Maggio a Ottobre, ed è per lo più
individuata scavando in corrispondenza della
presenza di carpofori di Polyporus
tuberaster. |
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In condizioni climatiche avverse, come freddo e
siccità, si pone in una condizione vegetativa,
una sorta di “letargo”, grazie alla notevole
scorta di acqua assorbita dal micelio (sino a
quasi la metà del suo peso). Con il ritorno
della stagione favorevole riprende a
fruttificare, dando vita ai gustosi carpofori
del Polyporus tuberaster. |
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In Italia, Polyporus tuberaster
era un tempo comune nei boschi
dell’Appennino centro-meridionale. Tuttora ne è
segnalata la presenza in molte regioni italiane,
ma l’uso di raccogliere la “pietra fungaia” per
la conservazione o la vendita è ormai ridotta a
episodi sporadici. Resistono solo alcune
località; tipico il caso di Saracena, in
provincia di Cosenza nel territorio del Parco
Nazionale del Pollino, dove la tradizione della
coltivazione domestica di questo fungo si è
tramandata fino a oggi.
In passato questa strana “pietra” era ricercata
e contesa, poiché rappresentava l’unico modo di
disporre di funghi sicuramente commestibili
proprio in quanto coltivati in casa. Non va
dimenticato, infatti, che nella credenza
popolare si riteneva che fosse sufficiente il
“soffio” del serpente per rendere velenosi anche
i funghi più prelibati come “ovuli” e “porcini”;
rischio che ovviamente non si correva tenendo la
“pietra fungaia” in cantina. |
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Queste false pietre, raccolte, messe in un vaso
con terreno e trasportate in un locale fresco e
umido, come una cantina o una grotta, oppure
leggermente interrate in un orto o un giardino e
innaffiate, sviluppano periodicamente per un
periodo piuttosto lungo, anche per alcuni anni,
corpi fruttiferi di Polyporus tuberaster. |
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Esemplari cresciuti
sulla medesima “pietra fungaia”, sepolta ai
piedi di una quercia nel “Parco delle Groane”
(giugno 1981). |
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I corpi fruttiferi sono uniti alla “pietra
fungaia” con un gambo piuttosto corto che
sorregge un cappello rotondo con margini
ondulati, misurante fino a 15 cm di diametro e
fino a 2 cm di spessore. La superficie superiore
del cappello è di color paglierino o cannella,
ed è decorata da squame concentriche brunicce.
La superficie inferiore del cappello, la parte
fertile del fungo, è costituita da pori di
colore prima bianco poi crema chiaro.
I funghi così ottenuti sono eduli e, almeno un
tempo, molto ricercati e apprezzati. |
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Esemplari tipici di
Polyporus
tuberaster, all’apparenza come normali
funghi cresciuti sul terreno. |
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La
storia e la leggenda |
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Oggi l’indagine scientifica ha ormai tolto ogni
alone di mistero sul curioso fenomeno micologico
rappresentato dallo sclerozio del
Polyporus tuberaster, che continua a
vivere anche fuori dalla terra producendo frutti
per molti mesi, fino a quando risulta esaurito
il nutrimento presente nella massa scleroziale;
tuttavia, ci piace mantenere vivo anche
l’aspetto leggendario della “pietra fungaia”
guardandola come una delle tante espressioni un
po’ magiche del bosco. |
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Di una “pietra” in grado di produrre funghi si
trova scritto sin dall’antichità, nei modi più
vari e fantasiosi.
Già nel I secolo dopo Cristo, lo scrittore
latino Strabone la menziona con il nome di Lapis
lyncurius (“Pietra della lince”) in quanto la si
considerava originata dall’urina della lince per
coagulo quando coperta con terra dalla lince
stessa per nasconderne le tracce. Questa falsa
credenza fu riproposta poi da altri scrittori
fino al Rinascimento; così Ermolao Barbaro, un
botanico veneto di nobili origini vissuto nel
1400, ci tramanda : “Dal sasso, e precisamente
dal Lapis lyncurius, detto volgarmente “pietra
della lince”, nasce un fungo di mirabile natura:
se viene tagliato, ne rinasce uno nuovo, e così
per tutto l’anno purché non si strappi, ma si
lasci nella pietra una parte del gambo; così la
pietra conserva e accresce la propria fecondità.
Non crediamo sia possibile diversamente,
mangiare funghi nati in casa”. |
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Attraverso i tempi, la “pietra fungaia” ha avuto impieghi diversi, soprattutto in medicina, per curare varie malattie e in particolare i calcoli renali. Così scrive Andrea Cisalpino, nel De Plantis : “Alcuni funghi, a Napoli, nascono da una certa pietra fungosa, leggera come legno, che chiamano “pietra della lince”: da essa nascono funghi tutto l’anno purché la si annaffi con acqua; essa, anche se si conserva in casa, aumenta continuamente la propria fertilità, purché i gambi dei funghi si lascino nel sasso. Questi funghi servono come diuretici e per espellere i calcoli; la pietra stessa, ridotta in polvere, può servire a disgregare le pietre che formansi nella vescica” | ||
Anche l’uso come commestibile di pregio del
fungo prodotto dalla “pietra fungaia” era noto
fin dall’antichità; sicuramente se ne faceva
largo uso nell’antica Roma, nel Medio Evo, nel
Rinascimento, poi fino al XIX secolo.
Successivamente la “pietra fungaia” è divenuta
più rara, forse proprio per la grande caccia di
cui era oggetto per la sua capacità di produrre
più volte in un anno e per più anni funghi
commestibili, mantenendola semplicemente ben
umida. |
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Sintomatico il commento posto sulla tavola ad
acquarello del fungo della “pietra fungaia”
fatta dipingere per la sua opera di storia
naturale da Federico Cesi tra il 1623 e il 1628:
Ex lapide seu tubere fungifero Romae in
fenesta / M Augusti fine (fungo prodotto da
una pietra su una finestra di Roma alla fine del
mese di Agosto). |
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Abbastanza ovvio pensare che il motivo della
presenza della “pietra fungaia” fosse la sua
capacità di produrre buoni funghi, meno chiaro
il perché fosse posta proprio su una finestra
invece che in una cantina umida. |
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Per liquidare definitivamente favole e fantasie
su questo fungo occorse attendere il 1729,
quando Pier Antonio Micheli, il padre della
Micologia moderna, nella sua Nova Plantarum
Genera, descrisse con precisione forma,
crescita e fruttificazione del fungo. |
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La
“pietra fungaia” non è un tartufo |
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Parliamo ora di un’altra peculiarità della
“pietra fungaia”, quella di essere non di rado
scambiata per un tartufo, e questo anche da
autorevoli esperti del settore (da cui il nome
di Tartufi fungarii attribuitagli in
vecchi testi),
Clamoroso, in tal senso, il caso dell’esemplare
di 9 Kg ritrovato dai cavatori di tartufo nel
febbraio 2006 sotto le nevi del Terminillo, in
un bosco di faggio nei pressi di Cantalice in
provincia di Rieti, e scambiato per un
Tuber
mesentericum. |
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Questa particolare qualità di tartufo, che deve
il suo nome alla forma simile ad uno stomaco
umano, cresce infatti abitualmente proprio nelle
faggete da settembre fino alla fine
dell'inverno, e ha l'abitudine di svilupparsi
sotto la neve; per questo motivo il suo nome in
gergo è "tartufo della neve". |
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Le dimensioni giganti indussero a ipotizzare
addirittura una modificazione genetica. Si deve
tenere conto, infatti, che il precedente
ritrovamento record per l’Italia avvenne in
Toscana nell’ormai lontano 1954, ma il tartufo
pesava “solamente” 2 chili e 200 grammi.
Logicamente: notizia sui giornali, paese in
subbuglio, mondo dei cercatori di tartufo in
fermento, pronti a prendere d’assalto il piccolo
paese laziale. |
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Ma l’illusione di aver trovato un tartufo da
“guinnes” dei primati fu stroncata dopo pochi
giorni dall’Istituto di genetica vegetale del
Centro Nazionale Ricerche, che sentenziò
trattarsi semplicemente di una “comune pietra
fungaia”. |
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